Prima ancora di stringerlo tra le mani, Alfabeto Simenon (BD Edizioni) è stata per me una piacevolissima scoperta editoriale. Finalmente, mi sono detto. Ecco il testo che mi introdurrà alla vasta, anzi vastissima produzione romanzesca di questo gigante della letteratura. Strano ma vero: di George Simenon – questo incontenibile, infaticabile scrittore belga in lingua francese – avevo letto soltanto le Memorie intime (la voluminosa autobiografia dedicata alla figlia Marie-Jo, morta suicida), la corrispondenza con Federico Fellini (un personalissimo feticcio letterario e cinematografico) e un gustoso reportage (pubblicato anche questo presso i tipi di Adelphi) intitolato Il mediterraneo in barca. Non avevo affrontato nessuno dei suoi romanzi. Né quelli definiti alimentari (centosettanta, scritti tra il 1925 e il 1930), né quelli con protagonista Maigret (settantacinque, scritti in un arco di tempo che va dal 1930 al 1975), tantomeno quelli considerati dallo stesso Simenon “romanzi duri” (tra i più celebri: Tre camere a Manhattan e L’uomo che guardava passare i treni). Per fortuna mia – e delle lettrici e dei lettori che si lasceranno conquistare da queste pagine – lo scrittore Alberto Schiavone, vincitore nel 2017 del Premio Fiesole Narrativa Under 40 con il romanzo Ogni spazio felice (Guanda), e il disegnatore Maurizio Lacavalla, autore del fumetto Due attese (Edizioni BD) nominato al Napoli Comicon come Migliore Opera Prima, con Alfabeto Simenon hanno realizzato un progetto narrativo che, oltre a offrire un’esperienza di lettura godibilissima, si presenta come un agile strumento di conoscenza. Ventisei lettere. Ventisei iniziali. Dalla A di Alias (perché tanti furono i nom de plume adoperati da Simenon: George Sim, Jacques Dersonne, Poum et Zette, J.K. Charles…) alla Z di Zézette (misteriosa reminiscenza sentimentale che affiora ne La vedova Couderc, romanzo pubblicato da Gallimard nel 1942). Schiavone, appassionato di “miti andati un po’ a male” – da ricordare Belushi. In missione per conto di dio (Edizioni BD) e una biografia di Diego Armando Maradona (Edizioni Clichy) – compone un mosaico di Simenon, scrittore la cui immagine è sempre stata contraddistinta da uno abbacinante successo, mettendone in risalto le complessità in penombra. Lacavalla, da par suo, sperimenta un approccio grafico suggestivo e, cosa fondamentale, efficace. Qualcuno avrebbe potuto aspettarsi una tentativo “alla Hergé”, l’altro genio belga (quasi coetaneo di Simenon) che con la linea chiara ha dato vita alle mille e più mille disavventure del reporter Tin Tin e del suo fido cagnolino Milù. Poche pagine sono sufficienti, invece, perché siano ben altri i modelli che tornano alla mente: le figure oniriche e perturbanti di Dino Buzzati intraviste nel Poema a fumetti e le storie nerissime di Diabolik scritte da Angela e Luciana Giussani. Grazie alla punta dei suoi pennelli, Lacavalla immerge Simenon e i suoi personaggi di fantasia in un paesaggio dai contorni incerti e tremolanti come un banco di nebbia.
Proprio alla nebbia dobbiamo l’apparizione di uno dei più celebri personaggi della storia della letteratura, il commissario Maigret. È il 1929. Simenon sta facendo il giro del mondo in barca a vela assieme alla prima moglie Régine Tigy Renchon, la governante-amante Henriette Boule Liberge e il cane Olaf. Un giorno, mentre attende la riparazione della Ostrogoth nel porto di Delfzijl, Simenon sta battendo freneticamente sui tasti della macchina da scrivere quando, all’improvviso, scorge qualcuno che emerge dalla vacuità grigiastra che l’avvolge. È lui. Maigret. Un uomo alto, corpulento, dai modi burberi, in grado di risolvere misteri e delitti indagando, più che le dinamiche criminali, le motivazioni psicologiche dei ladri e degli assassini. Due anni dopo, presso l’editore Fayard, vede la luce Pietro il Lettone. A questo primo romanzo con Maigret protagonista ne seguiranno altri settantaquattro. Un successo straordinario grazie al quale Simenon diventa il terzo autore di lingua francese più tradotto al mondo – dopo Jules Verne e Alexandre Dumas (padre). Una fortuna invidiabile basata su una disciplina ferrea capace di sparigliare ogni genere di imprevisti orditi dalla realtà. È il “metodo Simenon”: un elenco del telefono (per trovare il nome giusto da dare ai personaggi), un set di almeno otto pipe, un thermos (contenente caffè, whisky oppure vino a seconda della stagione), un gran numero di matite già temperate. Si inizia alle 06:30, dopo una doccia gelata. Un capitolo al giorno per nove giorni. Al decimo giorno il libro è pronto. Pochissime le correzioni. Sembra incredibile, eppure è così. Determinazione. Ammaestramento. Ma dentro Simenon c’è qualcosa di oscuro, di irrequieto. Un’ossessione che si agita. Di che si tratta? Nel febbraio del 1977 Federico Fellini ha appena fatto uscire nei cinema Il Casanova. Simenon, invece, non scrive più dal 1972. Nel rapporto epistolare tra i due (contenuto in Carissimo Simenon, Mon Cher Fellini, sempre per Adelphi) si può leggere: «Sa, Fellini, nella mia vita credo di essere stato più Casanova di lei! Un anno o due fa ho tirato le somme. Dall’età di tredici anni e mezzo ho avuto 10.000 donne. Il mio non era assolutamente un vizio. Non ho perversioni sessuali, avevo solo bisogno di comunicare. E anche le 8000 prostitute che vanno annoverate tra le 10000 erano degli esseri umani, esseri umani femmina. Avrei voluto conoscere tutte le femmine. Purtroppo, per via dei miei matrimoni, non potevo concedermi delle vere avventure. È incredibile quante volte in vita mia sono riuscito a fare l’amore alla svelta! Ma non è facile trovare un contatto umano, nemmeno se lo si cerca. Si trova soprattutto il vuoto, non crede?» Le donne. Importantissime. Sia nei romanzi che nella vita di Simenon. Ma sono state usate, queste donne. Maltrattate. Sminuite. È palese che l’obiettivo di Alfabeto Simenon non sia quello di emettere alcun giudizio in merito a questo rapporto sicuramente complesso se non dichiaratamente problematico; Schiavone e Lacavalla, tuttavia, fanno sì che certi personaggi femminili riescano a sottrarsi al giogo dell’esuberante Simenon: a volte si ha addirittura l’impressione che vogliano e possano evadere dalla gabbia del fumetto. Nell’ultima tavola della storia di Tigy, per esempio, gli occhi dolenti della donna incontrano lo sguardo del lettore in una scena che ricorda quella di Monica e il desiderio, pellicola di Ingmar Bergman che fece dire a Jean-Luc Godard: «Quegli straordinari minuti durante i quali Harriet Andersson [l’attrice che interpreta Monica], prima di tornare nuovamente a letto con il tipo che aveva lasciato, guarda fisso nella cinepresa, i suoi occhi ridenti sono svelati da sgomento, e prende lo spettatore a testimone del disprezzo che ha di se stessa per aver scelto involontariamente l’inferno invece del cielo. È il primo piano più triste della storia del cinema.» Schiavone e Lacavalla hanno qui senz’altro il merito di tracciare una rotta tra le centinaia di romanzi scritti da George Simenon. E, come se non bastasse, dimostrano – qualora ce ne fosse ancora bisogno – che il fumetto può meritoriamente accomodarsi al fianco dei linguaggi letterari e cinematografici quando cercano di sviscerare i desideri più complessi dell’animo umano.
[Questo articolo è stato pubblicato sul minima&moralia.]